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Terra di frontiera
 
Fin dal Medioevo fitti contatti trans-adriatici attestano la complessità etnica delle comunità isolane e costiere del Gargano Nord, nate dalle migrazioni
 
di  Teresa M. Rauzino
   
 

Relazioni con la Dalmazia

 

Armando Petrucci, nell’introduzione al Codice diplomatico di Tremiti, afferma che fra il X e l’XI secolo, il Mare Adriatico fu un elemento unificante, una sorta di ponte per le opposte sponde del Gargano e della Dalmazia: i contatti e gli scambi commerciali delle popolazioni che le abitavano erano frequentissimi. Gli slavi dalmati stabilirono sul nostro promontorio le colonie di Vico, Peschici e Devia. Quest’ultima, costituita da un gruppo di piccoli proprietari guidati dal “iuppano” (il capo-villaggio) intrattenne ottimi rapporti col monastero di Tremiti. Il nome di Peschici è di origine slava: significa “sabbia fine”. Il suo dialetto ha conservato vocaboli illirici; nella toponomastica, i nomi di Sarbiche, sul versante Est dell'abitato, e Cruateche, presso Sfinale, indicano luoghi abitati da Serbi e Croati. I monaci di Tremiti fondarono, proprio in questo periodo, numerosi monasteri sulle isole antistanti la costa dalmata. La Dalmazia e la Puglia adottarono lo stesso tipo di scrittura, la beneventana di Bari, o dalmata, proprio grazie alla diffusione che ne fecero i benedettini.

Sullo sfondo delle vicende adriatiche, è sempre presente la Serenissima Repubblica di Venezia, che controlla periodicamente anche i nostri litorali. Dopo dure lotte contro i pirati slavi e illirici, annidati nelle coste istriane e dalmate, era riuscita ad estendere il suo dominio sull’Adriatico e ad impadronirsi delle città costiere dell’Istria e della Dalmazia:  nel 1004 il doge Pietro Orseolo II  si proclamò “Duce dei Veneziani e dei Dalmati”. Un avvenimento ancora oggi ricordato con la festa annuale dello “sposalizio del mare”: ogni anno, il giorno del­l'Ascensione, il Doge si imbarcava sul famoso Bucintoro. Arrivato all'imboccatura del porto di S. Niccolò di Lido, versava in mare l'anello bene­detto dal patriarca, pronunciando l’epica frase: «Sposiamo te, mare nostro, in segno di vero e perpetuo dominio».

La caduta di Costantinopoli, avvenuta il 29 maggio 1453, destò un’enorme impressione in Occidente.  I Turchi non si accontentarono del grande successo conseguito e, sfruttando l’ondata di panico suscitato nel mondo cristiano,  si  lanciarono in una serie di campagne militari a lungo raggio,  arrivando a controllare tutto il bacino del Mediterraneo e minacciando da vicino i territori veneti dell’Istria e della Dalmazia, e la stessa Venezia.

Il lavoro di ricerca “Consoli e Consolati ragusei a Peschici e a Vieste” di Giuseppe Martella, fa luce sulla complessità etnica delle nostre comunità locali, figlie delle migrazioni. Numerose famiglie illiriche, dalla fine del Quattrocento, espatriarono sulla sponda adriatica del promontorio del Gargano, proprio per sfuggire alla dominazione turca.   Stabili rapporti diplomatici furono istituiti dal XVI al XVIII tra Ragusa e i due centri costieri del Gargano. A Peschici e a Vieste furono istituiti dei Consolati, che mantennero rapporti e collegamenti tra le comunità slave e la città di  Ragusa (Dubrovnik). In seguito si incrementarono rapporti commerciali tra le due sponde: pesce secco, pelli, articoli di cuoio venivano scambiati con la manna e la pece, ma soprattutto con il legname dei boschi di Mandrione.  Questo legname doveva servire per la costruzione di navi: veniva imbarcato da Peschici e da Vieste per la Dalmazia.

 

Le incursioni turche

 

 Le incursioni turche continuarono per tutto il 1600 e nel secolo successivo. La dinamica era la seguente: “veloci navi da corsa scendevano improvvisamente a riva e irrompevano nelle campagne, operando sistematiche razzie di bestiame e soprattutto di giovani validi d'ambo i sessi, per cui era estremamente rischioso avventurarsi fuori dalle mura per attendere ai lavori dei campi. In quegli anni il pericolo di finire, da un giorno all'altro, schiavo nei mercati d'Oriente era reale; i turchi rappresentavano una minaccia perenne”(M.Aliota). La Cronica del Pisani, relativa all’ultimo trentennio del Seicento, oltre a Vieste interessa tutta l’area garganica, fornendoci una drammatica visione dei lidi e delle campagne invase dai Saraceni, che spadroneggiavano.

Il 4 settembre 1680, verso l’alba, sbarcarono circa 160 Turchi da tre fuste, sulla costa tra Peschici e Vieste. Si recarono nella chiesa della Pietà, delle Grazie e del Carmine, dove ruppero candelieri, carte di gloria, lampade, arredi d’altare e il SS.mo Crocifisso grande. 

 I predoni diedero al saccheggio e alle solite ruberie: fecero schiavi sei contadini, ammazzarono sette buoi, molti altri ne ferirono. Alcuni andarono a bollire la carne sotto la Gattarella, dove stavano le fuste; altri assaltarono la Torre di Porto Nuovo. Finalmente da Peschici sopraggiunsero due galee veneziane, fra cui la capitana del golfo, guidata da Geronimo Garzon. Quando essa apparve alla punta di San Francesco, i Turchi, riconosciutala, si imbarcarono celermente sulle loro fuste, lasciando sulla spiaggia le caldaie ancora fumanti e un barile di polvere da sparo. Si diedero prontamente alla fuga verso Levante. Inseguite dalle due galee veneziane, si rifugiarono a Ragusa vecchia, da dove contavano di ripartire all’assalto della città viestana. Se questo progetto non si concretizzò fu solo grazie alla vigile presenza delle navi della Serenissima sul tratto di mare antistante le coste garganiche. La guarnigione spagnola, avvistate le fuste ancorate nelle acque di Porto nuovo, sotto la Gattarella, e alcuni Turchi affacciati alle finestre della Chiesa del Carmine, aveva dato l’allarme: con dei colpi di cannone allertò i vestani e soprattutto le galee veneziane che controllavano la costa di Sfinale, verso Peschici.

 

  

 

 

I rapporti tra i monaci di Tremiti e la Serenissima

 

Alla ricerca di possibili collegamenti della storia patria garganica  con la storia della Serenissima Repubblica di Venezia, è emerso un dato senza dubbio interessante:  numerosi Canonici Regolari di Sant’Agostino, che subentrarono nel 1412 ai Cistercensi nella guida del monastero di Tremiti, erano di origine lombardo-veneta. Ai Canonici bisogna riconoscere il merito di aver ottemperato a un arduo compito: la  ricostruzione del patrimonio monastico usurpato. Ci fu un minuzioso riordinamento dell’archivio  dell’abbazia e un’attenta ricognizione degli antichi diritti già goduti in terraferma dai Benedettini e dai Cistercensi.  Il livello culturale di questi monaci era notevolmente alto; lo dimostrano le belle iscrizioni apposte al chiostro nuovo e la ricchezza della biblioteca tremitense, attestata dal Cochorella. Lo stesso ci testimonia che essi  provvidero ,con somma accuratezza e spese,a rinnovare anche la Chiesa di Santa Maria di Càlena dalle fondamenta.  Irreprensibile fu la loro condotta e vivo il loro senso di ospitalità nei confronti dei numerosi visitatori che si recavano nelle isole per venerare la Vergine e dei naviganti che si fermavano nel porto di San Nicola per fare rifornimento e per attendere il vento favorevole. Essendo l’unico porto sicuro, d’estate vi facevano scalo tutte le navi che facevano rotta da Venezia in Puglia e dalla Dalmazia a Manfredonia. Le Isole Tremiti rappresentavano un centro di raccolta delle notizie sui movimenti dei corsari e dei Turchi in Adriatico, e servivano di rifugio a tutte le navi minacciate da qualche pericolo.  I capitani delle imbarcazioni vi approdavano per chiedere se in quel tratto di mare vi fossero dei corsari. Se vi era pericolo, si fermavano in porto anche per una quindicina di giorni, ma anche a volte un mese e più ed erano rifocillati per qualche giorno con viveri di ogni sorta e pane biscottato (gallette).  Le persone di rispetto venivano ospitate nel Castello  per tutta la sosta.  Talvolta gli illustri ospiti, che si recavano a visitare la Madonna, 

superavano con il loro seguito di servitori il numero di duecento persone.    Fra questi il capitano Girolamo Martinengo, morto a Famagosta nel 1572.  Oltre a ciò, le isole costituivano soprattutto per la flotta veneziana un prezioso punto di appoggio sulla rotta che la conduceva in Levante. Infatti tre o quattro volte l’anno, mentre erano impegnate nella loro campagna di perlustrazione delle coste adriatiche, le galee della flotta veneziana usavano rifornirsi a Tremiti di biscotto (gallette) e di pane fresco, confezionato con il grano che affluiva al monastero dalle sue riacquistate pertinenze in terraferma, che erano soprattutto le terre cerealicole appartenenti dell’Abbazia di Càlena.

L’importanza strategica delle Tremiti per Venezia è testimoniata dalla preoccupazione che suscitò nel Senato veneto la notizia di un possibile presidio militare spagnolo nelle isole nell’anno 1638. La Serenissima  rivendicò a sè, nel suo golfo,  il diritto assoluto di polizia che le conferiva il dominio dell’Adriatico. Si mosse a tutti i livelli per neutralizzare il tentativo di spostare, in senso a lei ostile, l’equilibrio politico dell’Adriatico. E ci riuscì: a difesa delle Tremiti restarono i monaci che le abitavano, naturalmente sotto la sua vigile supervisione .

 
 
 
 
 
 

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